Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Presto la rana cresce il verde:
è foglia; e l’insetto di spine
s’avventa sull’erbe dei canali.
I mulini tentano le ruote,
deserti, all’acqua che si piega.

Non udrò ancora fragore del mare
lungo i lidi dell’infanzia omerica
il libeccio sull’isole
funebre a luna meridiana,
e donne urlare ai morti cantando
dolcezze di giorni nuziali.

E tu come la terra
riappari a volte, e mi deludi
discorde. Basta così poco tempo
per morire da vivi.

Nella veste di colore infantile
inventi il passo d’una spirale
al timpano che imita la notte.
Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
in cesure straziate.

Tornano già i prati alla valle; forte
il lamento del corvo. Che certa
presenza, cara, di vita! Avverto
la sera alle tempie, e l’allarme
è un canto di cupo dialetto.

Nulla rimane della mia giornata.
Mi sorprende immutabile la noia
misericorde a ogni gioia apparsa
e alle radici subito indurita.

Calma notte superiore
volontà di consensi,
mi forzerò in così stretta misura
d’ingenua sapienza,
in tutto il freddo pietoso
serrato dentro il mio corpo.

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