Ho morti, e li ho lasciati andare
e stupivo a vederli così in pace,
così presto accasati nella morte, così giusti,
così diversi dalla loro fama. Solo tu torni
indietro; mi sfiori, ti aggiri, vuoi
cozzare in qualcosa che risuoni di te
e ti riveli. Oh, non prendermi quel che
lentamente imparo. Io ho ragione; sei in errore
se hai, commossa, nostalgia di
cose. Noi trasformiamo queste;
non sono qui, le riflettiamo in noi
dal nostro essere appena le riconosciamo.
Ti credevo assai più avanti. Mi sconcerta
che erri e ritorni proprio tu, che più
di ogni altra donna hai trasformato.
Che ci spaventassimo quando moristi, no, che
la tua forte morte c’interrompesse oscuramente
strappando via il prima dal poi –
ciò riguarda noi; trovare un nesso in ciò
sarà il lavoro che facciamo sempre.
Ma che ti spaventassi tu e ancora adesso
abbia spavento quando spavento più non vale;
che perda un pezzo della tua eternità
ed entri dentro qui, amica, qui,
dove nulla ancora è; che distratta,
per la prima volta distratta nel gran tutto e mezza persa,
non afferrassi il sorgere delle nature infinite
come afferravi qui ciascuna cosa;
che dall’orbita che già ti aveva accolto
la muta gravità di una qualche inquietudine
ti attragga giù verso il tempo contato –
questo mi desta spesso a notte come un ladro che effrange.
E potessi io dire che sol ti degni,
che vieni per generosità, per esuberanza,
in quanto sei così sicura, così in te stessa,
che gironzoli come un fanciullo impavido
di luoghi dove si fa del male –
ma no: tu implori. Questo mi va fin
dentro le ossa e stride come una sega.
Un rimprovero che muovessi da fantasma,
muovessi rancorosa a me quando di notte mi ritiro
nei miei polmoni, nelle mie budella,
nell’ultima più angusta cavità del cuore –
un tale rimprovero non sarebbe crudele
com’è questo implorare. Cosa implori?
Di’, devo mettermi in viaggio? Hai abbandonato
in qualche posto una cosa che si affligge
e che ti vuole seguire? Devo raggiungere un paese
che non vedesti benché ti fosse affine
quanto l’altra metà dei tuoi sensi?
Navigherò i suoi fiumi, scenderò
a terra e chiederò di costumanze antiche,
parlerò con le donne all’uscio
e le starò a guardare mentre chiamano i figli.
Terrò a mente come si avvolgon lì
del paesaggio fuori nell’antico lavoro
dei pascoli e dei campi; pretenderò
d’esser condotto innanzi al loro re,
e indurrò i sacerdoti con la corruzione
a pormi innanzi al simulacro più potente
e ad andar via chiudendo le porte del tempio.
Ma allora, quando avrò saputo molto,
contemplerò semplicemente gli animali, che
un che delle movenze loro scivoli di qua
nelle mie giunture; avrò un’esistenza breve
nelle loro pupille che mi terranno
e lentamente lasceranno, placide, senza giudicare.
Mi farò elencare dai giardinieri
molti fiori, così che nei frantumi
dei bei nomi propri riporti
un resto qui di quei cento profumi.
E frutti comprerò, frutti dove la terra
si ritrova ancora, fino al cielo.
Ché la capivi tu, la pienezza dei frutti.
Li posavi su piatti innanzi a te
e controbilanciavi con colori il loro peso.
E come frutti vedevi anche le donne
e così vedevi i bimbi, dall’interno
spinti nelle forme del loro esistere.
E vedevi te stessa infine come un frutto,
ti cavavi fuori dai tuoi vestiti, ti portavi
allo specchio, ti lasciavi andar dentro fino al tuo
sguardo escluso; e questo rimaneva grande innanzi
e non diceva no: «son io», ma: «questo è».
Così privo di curiosità era infine il tuo sguardo
e così senza possesso, di così vera povertà,
che non desiderava più nemmeno te: santo.
Così voglio serbarti, come t’introducevi
nello specchio, profondamente dentro
e via da tutto. Perché vieni diversa?
Perché ti smentisci? Perché vuoi darmi
a intendere che in quelle perle d’ambra
attorno al collo tuo restava un po’ della gravezza
di quel peso che non è mai nell’aldilà
d’immagini pacificate; perché mi mostri
nel tuo contegno un cattivo presagio;
cosa ti muove a esporre i contorni
del tuo corpo come le linee di una mano,
così che io non possa più vederli senza fato?
Vieni qui al lume della candela. Non ho paura
di contemplare i morti. Se vengono,
hanno diritto a soffermarsi
nei nostri occhi quanto le altre cose.
Vieni qui; staremo un poco in quiete.
Osserva questa rosa sul mio scrittoio;
la luce attorno a lei non è precisamente timida
come sopra te? Nemmeno lei potrebbe essere qui.
Nel giardino là fuori, non mischiata con me,
avrebbe dovuto rimanere o svanire –
be’, resiste così: cosa conta per lei la mia coscienza?

Non spaventarti se adesso comprendo, ah,
ecco che sale in me: non posso altrimenti,
devo comprendere, anche a costo di morirne.
Comprendere che sei qui. Comprendo.
Proprio come a tentoni un cieco comprende una cosa,
io sento la tua sorte e non so darle nome.
Lamentiamo insieme che uno ti abbia
presa dal tuo specchio. Puoi ancora piangere?
Non puoi. L’afflusso potente delle tue lacrime
l’hai trasformato nel tuo maturo contemplare,
e stavi per convertire così
ogni tuo umore in una forte esistenza
che cresce e circola, in equilibrio e alla cieca.
Allora ti strappò un caso, il tuo ultimo caso
ti strappò indietro dal tuo progresso estremo
giù in un mondo dove gli umori vogliono.
Non ti strappò interamente; strappò solo un pezzo
dapprima, ma allorché attorno a quel pezzo la realtà
aumentò di giorno in giorno sino a renderlo pesante,
tu avesti bisogno di te intera: allora reagisti
e ti staccasti a frammenti dalla legge
con fatica, perché avevi bisogno di te. Allora
ti sgombrasti e dissotterrasti dal caldo humus notturno
del tuo cuore i semi ancora verdi
da cui sarebbe germogliata la tua morte: la tua,
tua propria morte, corrispondente alla tua propria vita.
E li mangiasti, i chicchi della morte tua,
come tutti gli altri, mangiasti i suoi chicchi,
e ti restò un sapore di dolcezza
che non supponevi, ti vennero labbra dolci –
tu, ch’eri dolce già dentro nei sensi.
Oh, lamentiamo. Sai come il tuo sangue
tornò esitante e controvoglia da una circolazione
senza pari allorché lo richiamasti?
Come ricominciò confuso il piccol circolo
del corpo; come entrò pieno di sospetto
e di stupore nella placenta
e fu improvvisamente stanco di quel lungo ritorno.
Tu lo spronasti, lo spingesti avanti,
lo tirasti a strattoni al focolare
come si tira un branco di animali al sacrificio;
e in più volevi che ne fosse lieto.
E ci riuscisti infine: fu lieto
e accorse e si concesse. A te sembrò,
poich’eri abituata alle altre proporzioni,
che sarebbe stato soltanto per un poco; ma
ora eri nel tempo, e il tempo è lungo.
E il tempo passa, e il tempo aumenta, e il tempo
è come la recidiva di una lunga malattia.
Quanto fu breve la tua vita se la compari
a quelle ore in cui sedevi e
tacendo piegavi giù le tante forze del tuo
tanto futuro verso quel nuovo germe di bambino
che di nuovo era destino. Oh, lavoro penoso.
Oh, lavoro oltre ogni forza. Lo svolgevi
giorno per giorno, ti trascinavi ad esso
e traevi la bella trama dal telaio
e impiegavi tutti i tuoi fili ad altro scopo.
E alla fine ti restò il coraggio di festeggiare.
Perché una volta a capo, volesti una ricompensa,
come i fanciulli quando han bevuto
l’infuso dolceamaro che forse ristabilisce.
Così ti premiasti – ché da ogni altro
eri troppo lontana, e ancora adesso; nessuno avrebbe
potuto immaginare quale premio ti andasse bene.
Tu lo sapevi. Sedevi ritta nel letto del parto,
e innanzi a te stava uno specchio che ti restituiva
interamente tutto. Ora, questo tutto eri tu
e interamente innanzi, e dentro lì era solo inganno,
il bell’inganno di ogni donna cui piace
mettersi gioielli e pettinarsi e rifarsi i capelli.
Così moristi come un tempo morivano le donne,
moristi all’antica nella casa calda
la morte delle puerpere che vogliono
richiudersi e non lo posson più,
poiché quel buio che anche dettero alla luce
ritorna ancora e preme ed entra.

O non si sarebbe tuttavia dovuto trovare
delle prefiche? Femmine che piangono
per denaro e che si possono pagare
perché urlino la notte, quando si fa silenzio.
Usanze, sì! – non abbiamo abbastanza
usanze. Tutto va e finisce in chiacchiera.
Così devi venire tu, morta, e qui con me
recuperare lamenti antichi. Odi che sto lamentando?
Vorrei gettare la mia voce come
un panno sui cocci della morte tua
e tirarla con violenza finché va in brandelli,
e tutto quanto dico dovrebbe così
andare e congelare avvolto negli stracci di questa voce –
si restasse al lamento. Ma adesso accuso:
non quell’uno che ti ritrasse da te
(non arrivo a distinguerlo, è come tutti),
ma tutti accuso nella sua persona: il maschio.
Se in qualche parte affiora dal profondo
un tratto di me bambino che ancora non conosco,
forse il tratto più essenziale e puro della mia infanzia –
non voglio saperlo. Un angelo voglio
farne senza neanche guardare,
e lo voglio lanciare nella prima fila
di angeli clamanti che ricordano Dio.
Ché questo soffrire dura già da troppo,
e nessuno ne è capace; è troppo gravoso per noi,
il soffrire arruffato del falso amore che,
poggiando su prescrizione come su abitudine,
dice di essere un diritto e prolifera dal torto.
Dov’è un maschio che ha diritto al possesso?
Chi può possedere ciò che non tiene se stesso,
ciò che di tempo in tempo solo si prende felicemente
al volo e si ributta lì come un bimbo la palla?
Quanto poco l’ammiraglio può fissare
una nike alla prua della nave
quando la levità segreta del suo nume
la leva via di colpo nel chiaro vento marino,
altrettanto poco può uno di noi chiamare
la donna che non ci scorge più e
prosegue su una striscia sottile della sua
esistenza come per un miracolo, senza infortuni –
a meno che non si abbia vocazione e gusto della colpa.
Ché questo è colpa, se c’è una qualche colpa:
non arricchire la libertà della persona amata
di tutta la libertà che uno procura in sé.
Noi abbiamo, quando amiamo, appunto solo questo:
lasciar l’un l’altro a sé; ché il tenerci
ci risulta facile e non è neanche da imparare.

Ci sei ancora? In che angolo sei?
Hai saputo così tanto di tutto ciò
e così tanto hai potuto, allorché te ne andasti
aperta a tutto come un giorno che spunta.
Le donne soffrono: amare significa esser soli,
e gli artisti intuiscono talvolta nel lavoro
che devono trasformare quando amano.
Cominciasti entrambi; entrambi sono in ciò
che una gloria ora ti toglie sfigurandolo.
Ah, eri lungi da ogni gloria. Eri
inappariscente; avevi sommessamente raccolto in te
la tua bellezza come si tira dentro
una bandiera al grigio mattino di un giorno feriale,
e volevi null’altro che un lungo lavoro –
che non è compiuto, tuttavia non compiuto.
Se ci sei ancora, se in questo buio
c’è ancora un posto dove il tuo spirito
delicato vibri alle piatte ombre sonore
che una voce, solitaria nella notte,
suscita nella corrente di un’alta stanza –
allora ascoltami: aiutami. Vedi, noi scivoliamo così,
senza sapere quando, dal nostro progresso giù
in qualcosa che non supponiamo; lì dentro
c’impigliamo come in sogno
e lì dentro moriamo senza destarci.
Nessuno è più avanti. A chiunque ha sollevato
il proprio sangue in un’opera che diviene lunga
può capitare di non più tenerlo alto
e ch’esso segua il peso suo, senza valore.
Da qualche parte infatti c’è un’antica ostilità
tra la vita e il gran lavoro.
A che la riconosca e dica: aiutami.
Non tornare. Se lo sopporti, sii
morta tra i morti. I morti hanno molto da fare.
Ma aiutami lo stesso senza dover distrarti,
come mi aiuta a volte quello ch’è più lontano: in me.

Altra poesia su "dolore"